mercoledì 19 febbraio 2014

Time to wake up, sleeping bonnie Scotland!

Matteo Mangiarotti, un italiano a Edimburgo: collabora con DotRugby, cura il blog Albaovale e per RR ha analizzato la situazione della nazionale - e non solo - scozzese in vista del prossimo impegno contro gli Azzurri all'Olimpico nel 6 Nations, sabato pomeriggio. 

"Essendo il Groundhog Day – quello in cui in un paesino degli USA, Punxsutawney, la marmotta Phil ci dice quanto sarà ancora lungo l’inverno, ma anche quello del film con Bill Murray, che si risveglia sempre nella stessa situazione – un giornalista non può non notare la somiglianza tra la Scozia di Scott Johnson e il protagonista del film, che ha impiegato 10mila giorni prima di uscire dall’incubo… Sembra che la Scozia sia vicina ad eguagliare quel record” (Irish Times) 

… Sulla base di quanto mostrato dalle due squadre nella prima giornata di 6 Nations, sembra inutile rimuovere la Calcutta Cup dal trophy cabinet di Twickenham e portarla ad Edimburgo per la gara di sabato (tanto scontata sembra essere la vittoria inglese)” (Telegraph) 

Quelli riportati sopra sono solo due estratti - dei numerosi articoli apparsi - e riguardano la prestazione della Scozia contro l’Irlanda, l’esordio nel 6 Nations, quando i Blues avevano fatto male. Per carità di patria, evito di riportare quelli relativi al match contro l’Inghilterra, in cui la Scozia ha fatto molto, molto peggio. La terribile prestazione di sabato scorso al Murrayfield, però, va ben oltre i venti punti di scarto (“che avrebbero potuto essere molti di più, ci fosse stato un terreno di gioco diverso”, ha rimarcato Lancaster nel post-partita) e, a mio parere, ha radici più antiche. 

Autunno 2012: la Scozia ha appena intrapreso la “road” verso la prossima Coppa del Mondo e contro Nuova Zelanda, Sud Africa e Tonga vuole avere conferme e dare seguito alle buone prove estive, col tour down under concluso con un rotondo 3/3, compresa la prestigiosa vittoria contro l’Australia (con un piazzato di Laidlaw a tempo scaduto sotto il diluvio di Newcastle). Head coach era Andy Robinson e le premesse, come troppo spesso accade, erano positive. Contro gli All Blacks la Scozia perde “bene”, perché marca addirittura tre mete, con “doppietta” di Tim Visser, l’olandese volante di Edinburgh naturalizzato scozzese. Poi contro il Sud Africa qualcosa si rompe, e la partita che si gioca ad Aberdeen contro Tonga ha il brutto sapore dell’ultima spiaggia. La Scozia è inguardabile e perde contro i pacifici che restano in inferiorità numerica per mezzora. Robinson ha perso il controllo del gruppo e rassegna le dimissioni, irrevocabili. A poco meno di due mesi dal 6 Nations la Scozia è senza guida tecnica. Ma, soprattutto, senza idee e senza tempo per fare una scelta ragionata. 

Scott Johnson era entrato nello staff tecnico per il tour estivo e, quasi senza saperlo, a gennaio diventa head coach ‘ad interim’, con mandato di fare bene e organizzare una squadra per l’esordio nel Championship, a Londra contro l’Inghilterra. Poi, si vedrà. Jonno lavora sulla psiche dei giocatori, non fa rivoluzioni ma inserisce nel gruppo Sean Maitland, ultimo esponente dei “kilted Kiwis”, ovvero giocatori nati in Nuova Zelanda, ma legati alla Scozia da lontani vincoli ancestrali. Il dibattito è subito incandescente, perché sia gli addetti ai lavori - tra cui molti ex giocatori - sia i tifosi ‘medi’ iniziano a mettere in evidenza che riempire i vuoti con ‘stranieri’ non è la soluzione migliore, per far crescere il movimento rugbistico scozzese. Se andiamo ad analizzare nel dettaglio, però, gli ‘eligibili’ sono solo due (Denton è nato in Zimbabwe ma i suoi genitori sono nati in Scozia e sono tornati a vivere qui) e vanno a colmare dei buchi che sarebbero altrimenti rimasti scoperti. 

Dopo la batosta subita a Twickenham, la Scozia si riprende subito contro una bruttissima Italia ma, ancor più clamorosamente, batte l’Irlanda nella gara successiva. Le sconfitte contro Galles (di misura) e in Francia non fanno quasi notizia, perché la Scozia non ha solo evitato il cucchiaio di legno ma, cosa ancor più incredibile, ha chiuso il Championship al terzo posto. I risultati danno ragione a Scott Johnson, che si guadagna la conferma e, addirittura, la promozione a DoR del rugby scozzese, figura nuova creata apposta per l’australiano. Col senno di poi, si dovrebbe aggiungere un ‘purtroppo’. Già, perché i risultati coprono le prestazioni, molto spesso imbarazzanti, inscenate dal XV in blu. 

Tolto il match contro l’Italia, in cui gli Azzurri praticamente non sono scesi in campo, nelle altre gare la Scozia ha sempre fatto fatica ad imporre il proprio gioco, registrando percentuali imbarazzanti in fase di possesso e, di conseguenza, di territorio. Il tour estivo viene preceduto dalla presentazione informale del nuovo head coach, il neozelandese Vern Cotter, che però arriverà solo nel giugno del 2014, alla scadenza del suo contratto con l’ASM Clermont. Altro errore di valutazione pesante della SRU. Perché Johnson, nel suo nuovo ruolo di ‘organizzatore’ di tutto il movimento rugbistico scozzese, non avrebbe un secondo libero - tanto è il lavoro da fare - ma anziché concentrarsi sulla sua ‘mission’, resta vincolato alla gestione della squadra per un altro anno. Un altro, lunghissimo anno. 

A poco più di quindici mesi dalla World Cup (la vittoria della quale il board della SRU continua a ritenere “un obiettivo strategico e raggiungibile”) non c’è il tempo materiale per creare l’alchimia tra i giocatori, per plasmare il gruppo. Per quale motivo viene affidata la gestione dell’anno fondamentale in vista del traguardo ad un head coach a termine? Cotter è una prima scelta, ma che senso ha annunciarlo ai quattro venti e lasciarlo in Francia? Che credibilità può avere l’interim head coach nella testa dei giocatori? Chi si incarica di fare scelte ‘pesanti’ in vista della Coppa del Mondo? L’estate scorre tranquilla (nonostante arrivi solo una vittoria dal triangolare sudafricano, ancora contro l’Italia) perché gli occhi di tutti sono puntati sul Tour australiano dei B&I Lions. Il fatto che nei Lions, però, siano inclusi solo tre giocatori scozzesi (che diventeranno quattro, ma che effettivamente si riducono al solo Richie Gray, unico in campo in un Test) è un pesante campanello d’allarme. 

I giovani scozzesi faticano a trovare spazio perché le squadre pro sono solo due e possono impiegare al massimo 23 giocatori a partita. Il campionato domestico (l'RBS Premiership) non riesce a sfornare talenti, non è competitivo e i prospetti che escono dalle giovanili hanno, di conseguenza, la strada chiusa. La storia di Tommy Allan è esemplare. Edinburgh fatica a trovare un’apertura degna e lascia il giovane talento dell’Under 20 scozzese in Francia, senza fare nulla per convocarlo. Quando Tommaso decide di vestire la maglia della nazionale italiana si scatena un putiferio. La fascia centrale del Paese, la “Central Belt” è ben rappresentata dalle due squadre ma la decisione di escludere i Borders dalla competizione celtica ha di fatto tagliato fuori l’inesauribile fucina di talenti dal giro, relegando la ‘culla’ del rugby scozzese (e del Sevens) a mera provincia di contorno. 

Nel 1995 la SRU ha creato quattro franchigie (Edinburgh, Glasgow, Caledonia e Borders) salvo poi tagliare le ultime due per mancanza di fondi. Le conseguenze di quella scelta si stanno ancora scontando. Edinburgh sta lavorando per costruire finalmente un gruppo vincente e Alan Solomons sta attuando la stessa tattica adottata con Ulster, nel triennio 2001-2004. Ovvero, costruire la mentalità vincente attingendo prevalentemente dall’emisfero sud, quindi inserire gradualmente i giovani delle accademie e togliere gli stranieri. A Belfast ha funzionato alla grande - gli ultimi risultati dei nordirlandesi sono lì a dimostrarlo - ma allora ha potuto lavorare con calma. Nella situazione attuale, purtroppo, in Scozia non c’è più tempo per aspettare e un’operazione simile è minata dagli scarsi risultati della Nazionale. Negli ultimi anni, poi, i due club professionistici non sono mai riusciti ad essere all’altezza delle avversarie più quotate. Tolto l’exploit di Edinburgh nel 2012 (battuto in semifinale da Ulster) e nel lontano 2004, le scozzesi non hanno mai superato la fase a gironi in Heineken Cup

La squadra della capitale, creata per foraggiare la nazionale con nuovi, giovani talenti, ha fornito solo 24 giocatori alla Scozia, tra quelli cresciuti nel suo vivaio. Decisamente troppo pochi. Mentre i Glasgow Warriors sotto la guida di Gregor Townsend (grande apertura di Scozia e Lions) sono riusciti a centrare i playoff in Celtic League, salvo poi uscire in semifinale. 

Quello che tutti abbiamo visto finora, e quello che temo vedremo finché Cotter non prenderà la guida della nazionale, è frutto di scelte sbagliate, prese anche in buona fede ma che, purtroppo, hanno portato a queste conseguenze. La squadra che scenderà in campo a Roma sabato - dove la Scozia non vince dal 2006 - è abbastanza competitiva, ma per la sesta partita consecutiva i Blues hanno scelto una formazione diversa, proprio mentre Johnson ha fatto di “consistency” la sua parola d’ordine. Il campo dirà se questi giocatori riusciranno ad invertire la rotta e conquistare una vittoria prestigiosa, che rimetterebbe sui giusti binari non solo il 6 Nations della Scozia, ma soprattutto permetterebbe di guardare al futuro con più ottimismo. 

Matteo Mangiarotti (@Soloteo1980)

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